L’oreficeria tradizionale abruzzese
L’Abruzzo, caratterizzato da vette elevate e da scenari naturali di selvaggia bellezza, rappresenta, da sempre, un territorio dal forte impatto esistenziale e di grande suggestione contemplativa, qualità che hanno influito sullo sviluppo della religiosità e dell’espressione artistica delle popolazioni che lo hanno abitato durante il corso millenario della sua storia.
Dopo la dissoluzione dell’impero romano, si moltiplicarono abbazie e monasteri benedettini, spesso, sulle macerie degli antichi siti, per riorganizzare armonicamente la vita dei superstiti, tra economia e cultura, bruscamente interrotta da cataclismi naturali ed “umani”. Le fervide relazioni con la sponda orientale bizantina e l’attività rinnovatrice dell’importante complesso monastico di Montecassino, per l’Appennino centro-meridionale, costituirono l’impulso promotore utili a sviluppare e potenziare centri di produzione artistica e artigianale, come le oreficerie a soggetto sacro di Sulmona, Guardiagrele, L’Aquila, Teramo, la cui fama attraversò i confini regionali grazie al maggiore tra i suoi maestri, Nicola da Guardiagrele, probabile collaboratore del Ghiberti a Firenze e fondatore di una scuola propria, operante per tutto il XV secolo.
I metalli preziosi, incorruttibili e luminosi erano i prescelti per rappresentare l’essenza del “Dio della luce”, sotto forma di croci processionali, ostensori, e calici, decorati da gemme e smalti, tuttora conservati ed esposti in chiese e musei nazionali ed esteri. (Foto dettaglio ostensorio di Nicola da Guardiagrele)
Questa condizione, mutò radicalmente nel XVIII secolo. A causa delle migliorate condizioni economiche, esistenziali ed all’incremento delle preziose materie prime importate dal “nuovo mondo”, la produzione degli ornamenti personali, soprattutto a carattere “popolare” prevalse agli oggetti sacri, spesso elaborati conservando le antiche ed artistiche tecniche di realizzazione ma, esprimendo valenze decorative in senso etnografico.
Nella società preindustriale, quale quella abruzzese fino al secondo conflitto mondiale, l’identità femminile veniva rappresentata attraverso l’esibizione dell’ornamento, ne sono esempio emblematico le donne riferite ad ogni età ritratte dai grandi artisti del “verismo” abruzzese di fine ottocento ed è grazie alla loro documentazione pittorica se si è conservata memoria dell’antico repertorio di gioielli tradizionali altrimenti sconosciuti perché caduti in disuso già dagli anni trenta del novecento e quindi dispersi anche a causa degli eventi bellici successivi.
(Foto Pittori ‘800 Michetti, Cascella o Celommi a vostra scelta)
L’oreficeria tradizionale corrispondeva ai gusti ed alle esigenze delle persone “comuni”, provenienti dalle classi subalterne che, per consuetudine culturale, coniugavano la valenza estetica ed economica dell’ornamento con quella simbolica e funzionale, risultando poco inclini a seguire i capricciosi dettami stilistici nell’alternanza delle mode, invece, appannaggio dei ceti più abbienti.
La produzione si avvaleva delle tecniche della fusione, dello sbalzo e del cesello ma, soprattutto in alcuni centri quali Pescocostanzo e Sulmona, i maestri orafi eccellevano nella realizzazione di gioielli in filigrana. Questa tecnica consiste nell’intrecciare un doppio filo di metallo prezioso che mostra segmenti trasversali simili ad una spiga di grano (di qui il termine filigrana). La filigrana, è sicuramente tra le lavorazioni più elaborate, una tecnica di oreficeria di antichissima origine che consiste nella lavorazione ad intreccio di sottili fili d’oro e d’argento i quali, dopo la ritorcitura, vengono fissati su un supporto, anch’esso di materiale prezioso, in modo da creare un elegante effetto di struttura traforata utilizzata per spille, orecchini, medaglioni, pendenti; ma anche la lamina sbalzata a tutto tondo, per realizzare i vaghi (chicchi) di importanti collane e girocolli. Mentre la lavorazione era preziosa e raffinata, la materia prima era a basso titolo o si ricorreva al più economico argento. In un’epoca in cui il costo del lavoro era di molto inferiore a quello della materia prima, questa lavorazione permetteva di realizzare manufatti leggerissimi di grande effetto decorativo, consistenti in sottilissimi fili intrecciati, battuti e saldati attorno ad un telaio in lamina, disegnando motivi floreali e spiraliformi.
Più che nelle tecniche, l’oreficeria popolare si distingueva per le decorazioni con motivi simbolici magico-religiosi, spesso ispirati al mondo naturale, associando il risultato estetico dell’oggetto con quello apotropaico (protezione dalle influenze negative del malocchio). Per ogni passaggio ciclico dell’esistenza individuale esistevano una serie di ornamenti magici, rappresentati dagli amuleti che si donavano alla nascita, alla pubertà, al fidanzamento ed alle nozze. (FOTO ranocchiella)
Ieri come oggi, la maggior parte degli ornamenti preziosi era destinata all’occasione nuziale, come la presentosa; un medaglione dalla forma solare, realizzato in filigrana, decorato da cuori o altri simboli amorosi, tuttora in uso e prodotto dai maestri orafi, soprattutto delle provincie di L’Aquila e Chieti.
Questo gioiello veniva donato alla ragazza prescelta dal pretendente, in occasione del primo incontro tra le due famiglie, come presentènze, cioè presentazione al pubblico della promessa di matrimonio. (Foto Presentosa)
Le fedi nuziali differivano per tipologie che variavano a seconda del territorio. A Scanno si riscontrano ancora due modelli di antica origine: le manucce (due manine mobili che racchiudono un cuore) e la cicerchiata (una fascia granulata di arcaica matrice orientale). (Foto anelli cicerchiate)
A Pescocostanzo, le spose tuttora ricevono la collana con sfere granulate: cannatòra, impreziosita dal medaglione berlòcche. (foto cannatora)
Altri emblematici ornamenti sono i vistosi orecchini sciacquajje che un tempo, caratterizzavano le donne sposate dell’intero territorio teatino e frentano.
(Foto sciacqujje)
Sono a forma di cerchio semilunato con pendaglini scaramantici oscillanti all’interno.
Altri orecchini a navicella traforata sono le cecquàje e le circéjje che caratterizzano la produzione orafa di Pescocostanzo e Scanno.
Altro motivo tipico della regione è il Cuore d’Abruzzo, oggi riprodotto in varie modalità e contaminazioni anche con la tecnica della filigrana a richiamare i decori tipici della più famosa presentosa. Nella sua versione storicizzata è un ciondolo cuoriforme irregolare con la punta uncinata, tipo cornetto portafortuna e come questo, di evidente valenza scaramantica. Infatti è stato scelto anche come logo per il Museo delle Genti d’Abruzzo di Pescara.
Tradizionalmente, veniva donato dai pastori alle loro fidanzate come pegno d’amore prima della partenza per la transumanza invernale verso le Puglie.
Nonostante la crisi di tutte le arti applicate intervenuta negli ultimi decenni a causa della massiccia produzione industriale intervenuta in nome “dell’economia di mercato”, grazie ad un’appropriata “acculturazione” derivata da diversi studi e richerche su questo argomento* finalizzati al recupero dei valori caratterizzanti l’identità del territorio, negli ultimi tempi, l’oreficeria si è rivelata protagonista di rinnovata arte.
Attualmente, operano nella regione un discreto numero di laboratori, presenti sia in centri di antica vocazione “professionale”, come Pescocostanzo, Scanno, L’Aquila Guardiagrele e Sulmona, che in altre località meno storiche (come quelle costiere) ed alcuni esperti “maestri”, spesso, risultano impegnati anche nell’insegnamento della materia presso Istituti d’Arte, Accademie e Scuole d’Arte Orafa.
Ciò che qualifica e caratterizza la loro produzione è la sintesi armoniosa tra una serie di gioielli innovativi con i modelli cosiddetti tradizionali, esemplare connubio di creatività artistica e tecnologia, nel rispetto dei repertori antichi, rinnovati attraverso le modalità del contemporaneo.
La Presentosa
La tradizione artistica di quello che un tempo erano gli Abruzzi (comprendente anche il Molise) è stata sempre caratterizzata da una forte preminenza verso l’oreficeria. (Foto inizi ‘900: due ragazze indossano la “Presentosa”) Guardiagrele in questo contesto rappresentava uno dei centri principali nella lavorazione dei metalli preziosi sin dall’età medievale: Nicola di Andrea di Pasquale, meglio noto come Nicola da Guardiagrele ne è stato il massimo esponente nell’ambito dell’arte sacra.
Pertanto, nel XVIII sec. viene considerata tra le località famose anche per la produzione di monili ad uso profano, in cui religione e superstizione risultano essere indissolubilmente legati tra loro.
Fu Gabriele d’Annunzio a citare e descrivere per la prima volta un tipico gioiello, divenuto il simbolo della cultura popolare abruzzese, nominandolo come Presentosa.
Si tratta di un medaglione composto da un telaio a forma di astro raggiante che racchiude simboli amorosi, interamente decorato con intrecci arabescati in cordellina a filigrana. In una delle sue più celebri opere “Il Trionfo della morte” del 1894, il poeta descrive l’ornamento femminile: ‹‹Portava agli orecchi due grandi cerchi d’oro e sul petto la presentosa, una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori››. D’Annunzio così diede ufficialmente il battesimo letterario a questo gioiello, che tuttavia era presente probabilmente già nel Settecento e sicuramente nei primi decenni del XIX secolo: negli atti rogati dal notaio Domenicantonio Aloè di Guardiagrele e, precisamente, in due capitoli matrimoniali stipulati nel 1804 e nel 1816, fra i vari gioielli dotali della sposa compaiono una presentosa di corallo ed una d’oro con rubini. Tra i luoghi di produzione più antichi fu anche Agnone, per poi diffondersi soprattutto in area frentana e peligna. Altri importanti centri di produzione divennero L’Aquila, Sulmona,Pescocostanzo e Scanno. In una fase successiva la produzione si diffonde nell’Italia meridionale, in particolare Campania e Gargano, attraverso il fenomeno della transumanza.
Al centro di questo medaglione prevale il motivo simbolico del cuore, in riferimento alla “presentazione” del fidanzamento (infatti la denominazione presentòse sarebbe derivato dal termine presentènze) che il pretendente riservava alla prescelta e che la caratterizzava come ragazza “impegnata”. Delle varie tipologie (cuori uniti, cuore singolo, cuori stillanti sangue o lacrime di passione, cuori sormontati da fiamme o uniti dalla chiave) se ne riconoscono otto di fattura abruzzese, nate delle esigenze dei diversi orafi di differenziarsi oppure di corrispondere a richieste specifiche o a circostanze particolari. Inoltre, per non incidere troppo sul costo questo gioiello veniva realizzato spesso, con oro a basso titolo (8 o 12 carati).
In tempi in cui la manodopera costava piuttosto poco, c’era la lavorazione in filigrana che permetteva di realizzare con piccole quantità di materiale prezioso manufatti molto decorativi. I modelli di Pescocostanzo, Sulmona e Scanno erano gli unici ad essere realizzati in filigrana vera e propria invece che in semplice filo a cordellina.
Dalle sciacquajje alla Cannatora
I cosiddetti orecchini sciacquajje e la collana cannatora rappresentano al meglio l’ornamento femminile abruzzese, il risultato di tradizioni popolari, come quelle nuziali, rimaste immutate nel corso dei secoli, e per questo segno prezioso di particolari usanze etnico-culturali.
Oro, argento, pietre preziose hanno avuto sempre un significato ed un impiego mistico-simbolico collegato ai culti e alle cerimonie delle popolazioni che trasmutano il puro senso di decorazione della persona coniugandolo alla funzione di difesa magica.
Nella cultura tradizionale era molto importante il loro ruolo apotropaico, a protezione degli influssi negativi e dei malefici. Quindi, tutti imonili avevano questa doppia valenza, estetica e magica.
Le sciacquajje, sono orecchini a forma di cerchio semilunato con pendaglini oscillanti all’interno, realizzati in lamina decorata ed oro a basso titolo. Venivano indossati quotidianamente da popolane e contadine perché ritenuti utili a scongiurare gli effetti malefici del malocchio. Inoltre, questi pendenti, emanavano anche un potere seduttivo oltre che magico-simbolico poiché ornavano il volto femminile, abbellendolo, diventavano sintesi evocativa della femminilità più arcaica.
Lo aveva intuito Francesco Paolo Michetti, che adornò il volto della “sua” Figlia di Jorio (1895) proprio con le sciacquajje.
Seppur avvolta in un drappo rosso, la sensualità sembra sprigionarsi da quella donna che incede silenziosa, in fuga da bramosi sguardi indiscreti. Il volto semiscoperto lascia intravedere l’accessorio dorato come per scongiurare nefasti influssi, in un’atmosfera pregna di tensione, esercitata da uomini che guardano con insistenza quella donna altera. Così come per gli altri gioielli abruzzesi, le sciacquajje si tramandavano da una generazione all’altra, da suocera a nuora in occasione delle nozze. Orsogna (CH), paese agricolo ubicato tra Lanciano e Guardiagrele, è stato il centro di produzione e diffusione di questi orecchini.
Non a caso Michetti ambientò in questa località la tela sopra citata, scegliendo come modella una donna locale con il suo abbigliamento tradizionale.
Dal termine colto napoletano “scioccaglie”, che si riscontra nelle fonti archivistiche fin dal XVI secolo, si origina la definizione dialettale sciacquajje.
Questi, risultano prevalere nell’area frentana a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ad opera di un orafo orsognese molto creativo ed innovatore: Francesco Bartoletti.
Di orecchini con pendenti se ne riscontravano diverse varietà e quantità in tutto il Regno Borbonico, ma nell’aerea teatina, questi si differenziavano per il modello a navicella o cerchio semilunato con pendagli e catenelle oscillanti. Questa forma strutturale delle sciacquajje rivela la storia millenaria della civiltà del mediterraneo alimentata da scambi e commerci che ne diffondevano la cultura simbolico-religiosa.
La mezzaluna delle sciacquajje d’Abruzzo è di grande valore estetico, talvolta realizzata in lamina stampata e accoppiata con margini poligonali irregolari. L’elemento decorativo è costituito da una catenella di pendagli in lamina traforata, sospesa nella circonferenza interna. Questo tipo di orecchino veniva indossato dai ceti popolari.
Contraddistingueva la donna sposata e spesso ne determinava la provenienza. Il motivo della mezzaluna poi, richiamava le fasi lunari conferendo all’ornamento valenze propiziatrici beneuguranti fertilità.
Anche la cannatora era il tipico regalo in occasione delle nozze. Era la suocera che ornava la giovane nuora quale segno di benvenuto nella nuova famiglia, ma anche come simbolo di continuità per la stirpe. Consisteva in una collana a girocollo formata da una serie di sfere vuote, sia lisce che lavorate a sbalzo. Queste, venivano ottenute battendo un punzone metallico con uno stampo inciso a rilievo dentro mezze coppette in lamina, in modo da ottenere il disegno desiderato.
Queste coppette poi erano accoppiate e saldate assieme, ma soltanto a Pescocostanzo la lavorazione prevedeva una decorazione ulteriore, saldando “a fiamma” sulle sfere minuscoli globi aurei. Questa lavorazione ad effetto granulato tuttora è chiamata prescine, denominazione dialettale locale che definisce un frutto o bacca spinosa (uva spina).
Le sfere potevano essere di diversa fattura: stampate col punzone ovale liscio, chiamate a vache o con quello sfaccettato, conosciute come paternòstre e senàchele.
Inizialmente le sfere erano infilate in un nastro di seta, attualmente sostituito da una catenina in oro. Esistono diverse varianti al modello classico. Sempre a Pescocostanzo, alla cannatora viene aggiunto un medaglione in filigrana con cammeo centrale in corallo o conchiglia, denominato berlòcche. Mentre, nel resto del territorio viene inserita la presentosa.
Amuleti e talismani della tradizione abruzzese
Oltre ai gioielli veri e propri ed agli accessori, grande diffusione nell’oreficeria tradizionale abruzzese era rappresentata da vari manufatti apotropaici o scaramantici, noti come amuleti e talismani, utilizzati sia per allontanare le influenze negative del malocchio che, per attrarre quelle benefiche. Erano realizzati prevalentemente in argento e riservati soprattutto all’infanzia ed alla sfera femminile.
I bambini venivano muniti di medagliette chiamate “protezioni” e da sonagliere e campanellini che, con il loro tintinnìo dovevano allontanare le energie nefaste. Questi oggetti venivano fissati sulle fasce, sugli abitini o sospesi sulle culle. Uno dei più antichi e diffusi è: la tasciòle, composta da un ciuffo di peli di tasso trattenuto da un cappuccio d’argento. Molto diffuso a Pescocostanzo e nel teramano, è un potente rimedio contro il malocchio e le streghe perché costei, essendo molto curiosa, per contare i peli del tasso, si attarda fino all’alba e con la luce solare non può più danneggiare il neonato.
In alcune zone, gli amuleti venivano applicati dietro la schiena, sulla scapola sinistra, bene in vista, oppure venivano posti a contatto diretto col corpo sotto la camiciola, sempre sulla stessa spalla perchè la sinistra è la parte del cuore, quella più delicata e sensibile e perciò più bisognosa di protezione.
Alla categoria dei sonagli infantili appartengono le ciambelle e i tarallucci costituiti da un anello in argento munito di catenella di sospensione con al centro un campanellino a bottone. Quest’oggetto aveva triplice funzione: la ciambella serviva a favorire la dentizione del neonato, il sonaglino teneva lontani influssi negativi rallegrando, con il suo tintinnìo, il bambino. Trombette, ciufèlle o ciuffelètte erano amuleti giocattolo destinati ai maschietti, mentre le cambanelle, piccole campane decorate ad incisione con simboli religiosi e floreali erano riservate alle bambine.
Il cavallùcce era un amuleto dalla forma di animale fantastico simile ad un unicorno con sonagli a bottone, veniva legato tramite una catenella, al corpo del bambino che lo utilizzava come giocattolo. Un altro potente scaccia-streghe era formato da una campanella d’argento, associato ad una ciambella in osso per le gengive e un ciuffo di peli di tasso, tasciòle o anche il “tredici” , una medaglia centrale riproducente il numero tredici alla quale erano sospesi, per mezzo di catenelle, altrettanti ciondolini tra i quali: il cane che rappresentava la fedeltà, il pesce la vitalità, la scrofa l’abbondanza, il cornetto il contro-malocchio, la lepre la fertilità, la campanella che scacciava le influenze nefaste.
Altri amuleti erano le zanne di cinghiale in argento, usate soprattutto da pastori e cacciatori che lo tenevano in tasca o appeso al panciotto, la pietra di fulmine, punta di freccia preistorica in selce montata in argento che veniva sospesa al collo di contadini, pastori o carrettieri come protezione dalle folgorazioni dei fulmini, la ranocchiella che rappresenta una rana, associata alla rigenerazione e nella maggior parte dei casi abbinata alla luna crescente. Inoltre, la manufìca o ficarèlle che ripropone l’antico gesto itifallico di scongiuro che consiste nel chiudere il pugno mostrando il pollice stretto tra indice e medio, che talvolta stringe anche una freccia alludendo al legame amoroso oppure mostrando allusioni falliche come germogli e serpenti.
I cornetti risultano l’amuleto più diffuso ancora oggi. Spesso realizzati in corallo, oppure in oro, più rari sono gli esemplari in madreperla, mentre le cosiddette protezioni sono medagliette che raffigurano i Santi protettori (San Donato protegge dall’epilessia, Maria Immacolata a protezione delle giovani donne, Santa Lucia protettrice della vista, Sant’Antonio da Padova per i fanciulli, San Benedetto per gli studiosi) che venivano appese a catenelle o cucite sugli abiti a scopo apotropaico e scaramantico oppure sospese sulle culle.
Attualmente, dopo alcune pubblicazioni riguardo l’argomento di amuleti e talismani tradizionali denominati condrammalùcchie, molti maestri orafi abruzzesi, di loro iniziativa o su richiesta dei clienti, hanno ripreso la produzione di splendidi esemplari ispirati a questo tipo di oreficeria popolare. Sono così tornati nelle vetrine delle botteghe orafe e anche nelle teche della nostra mostra.